“Dagli anni trenta, i vecchi vini secondo il raffinato connaisseur Rino Fontana” di A. Cappelli

“Il Chianti e le terre del vino”

Dagli anni trenta

Il grande connaisseur di vini Rino Fontana ci racconta la sua storia e quella della sua grande passione per il nettare dionisiaco, quello vecchio però, che si è fatta strada nella sua vita fin dall’infanzia. Nato nel cuore dell’Oltrepò Pavese, nell’antico borgo di Suardi, ebbe i suoi primi contatti col mondo del vino grazie all’attività di vinificazione svolta dal padre, che acquistava le uve e le lavorava personalmente, fino a ottenere quel vino per la tavola di casa i cui profumi e sapori sono ancora nei ricordi del figlio. Di mestiere gioielliere con una fabbrica di oreficeria a Valenza, Rino inizia alla fine degli anni Settanta a girare per cantine.

Quanti anni ci sono voluti per affinare il gusto?

«Ho dovuto bere molto, assaggiarli tutti. Sono partito con degli amici, un anno siamo venuti in Toscana e in dieci giorni abbiamo fatto 22 aziende. Portavo a casa bottiglie di vino di tutti i produttori, sei bottiglie di qua, dodici di là… Siamo stati poi in Friuli, anche lì abbiamo girato 14 aziende e ho avuto la fortuna di conoscere personalmente Josko Gravner e apprezzare i suoi grandi vini bianchi. E infine in Piemonte: tempo quattro giorni avevo preso talmente tanto vino che al sabato chiesi a tre amici di venire su in Langa con le macchine a caricare».

I primi vini importanti Rino inizia ad acquistarli negli anni Ottanta e sono quelli piemontesi di Langa, come la prima annata del Bricco dell’Uccellone. «Mi ricorderò sempre quando feci l’ordine a Giacomo Bologna di 12 casse da 12 di Bricco dell’Uccellone 1982: la sorpresa fu quando andai a ritirarlo, Giacomo mi disse che non era pronto perché doveva stare ancora nelle botti e che avrebbe mandato una lettera a tutti i clienti quando il vino fosse stato pronto per il ritiro. E infatti andammo a ritirarlo quasi un anno dopo, solo che, quando finalmente arrivò il momento, pur avendo Giacomo un ordine scritto, mi disse che non poteva darmi più di una sola cassa da 15 bottiglie, altrimenti non avrebbe potuto accontentare tutti».

La passione di Rino con gli anni cresceva sempre più, i suoi gusti maturavano, s’affinavano e con essi anche la voglia di frequentare le cantine, andare a vedere le vigne e conoscere direttamente i produttori. Ed è alla metà degli anni Novanta che la passione di Rino si dirige verso i vini vecchi. «I primi sono stati il Barolo e il Barbaresco – racconta Rino -, ma per arrivare ad apprezzare realmente i vini vecchi, oltre a berli, bisogna cercare di capire cosa c’è dietro, cioè camminare nelle vigne e parlare con gli uomini che li hanno fatti. In più cominciavo a notare che, bevendo vini vecchi, stavo bene, non mi davano fastidi di nessun genere, infatti l’acidità è molto bassa poiché ridotta dal passare degli anni».

In questo periodo guadagna anche il suo soprannome, ‘Rino delle vedove’: «Un mio amico ristoratore in Val d’Aosta – narra col sorriso sulle labbra – mi aveva parlato di una vedova proprietaria di una cantina eccezionale, con dentro tutti vini vecchi, che voleva vendere. Allora mi dette il numero di telefono, la contattai e andai a trovarla: entrai in questa cantina e c’era di tutto, credo la quantità si aggirasse intorno alle sei\settemila bottiglie, cominciai a tirar fuori un po’ d’annate, partivano dal 1947 e andavano fino al 1978, anno in cui era purtroppo mancato l’appassionato marito che comperava questi vini, tutti disposti meticolosamente in base alle annate».

Da quel momento Rino capì che uno dei canali privilegiati per trovare vecchi vini sarebbe stato quello di contattare le signore, soprattutto piemontesi, sfortunatamente rimaste sole, ma che custodivano nelle cantine dei poveri mariti veri tesori enologici. Oltre alle vedove, anche i produttori, divenuti col tempo amici di Rino, lo hanno aiutato molto: «Le conoscenze dei produttori sono state per me molto importanti, a loro venivano offerti molti vini vecchi, ma nessun produttore voleva comprarli, però prendevano il numero di telefono, me lo giravano poi contattavo chi voleva vendere, andavo a vedere e tante volte ho fatto chilometri e chilometri per niente perché trovavo un sacco di vini conservati male».

Quando si parla di vini vecchi in Italia dove bisogna dirigersi?

«In Piemonte e in Toscana. Per i vini vecchi toscani ho avuto la fortuna di conoscere Gianfranco Soldera coi suoi elegantissimi Brunello, Selvapiana nel Chianti Rufina, dove ho bevuto dei vini buonissimi che non pensavo fossero ancora così freschi, e infine Sergio Manetti di Montevertine, che mi è sempre piaciuto e mi ha aiutato a trovare tanti suoi vini vecchi. Quando parlo di vini vecchi toscani parlo sempre entro i trent’anni, oltre vi sono solo Barolo e Barbaresco».

La passione travolgente per i vini vecchi ha completamente assorbito Rino che, ancor’oggi, quando apre una bottiglia risalente a cinquanta, sessanta o settant’anni prima, resta stupito ogni volta della sua freschezza e di come i produttori d’un tempo siano riusciti a fare vini così longevi. «Questi produttori non selezionavano come oggi e badavano alla quantità più che alla qualità, pigiavano coi piedi e le cantine erano naturalmente prive di tecnologie, ma apri una bottiglia e la trovi così fresca che ti sembra di bere un vino che ha al massimo quindici anni. Io non riesco a capire perché tanti produttori di oggi, specialmente in Piemonte, non si chiedano perché quelle bottiglie siano durate così tanto e siano così buone ancor oggi: qualche vecchio produttore dice che le uve erano diverse, c’era meno inquinamento».

Quali sono allora secondo te i segreti di questi vecchi vignaioli che sono riusciti a fare vini così longevi?

«Loro lavoravano con vinificazioni più lunghe, non si può fare un Barolo o un Barbaresco con una vinificazione di tre, quattro, cinque giorni solo per avere tanto colore e tanti tannini, è assurdo. I vini fatti nella maniera tradizionale con la vinificazione in legno che può essere di venti, venticinque e anche trenta giorni, dipende dall’annata, sicuramente devono stare molto in botte perché, facendogli una vinificazione lunga, il legno buono fa solo bene. Per esempio il Monfortino 1970 è stato nove anni in botte, il 1968 ce n’è stato dieci e normalmente ce ne sta sette, adesso ad esempio il 2002 starà otto anni in botte. Oggi non vinificano più in legno, ma in acciaio oppure direttamente nelle barriques, si tratta di vini che non hanno sostanza, che apri e sono pronti subito, però la mia esperienza mi dice che non arriveranno a dieci anni, infatti cominciano a cadere dopo poco che vengono immessi sul mercato, vanno bene per il giapponese, per l’americano…».

Ma secondo te i vini che vengono fatti oggi dureranno ancora cinquant’anni oppure no?

«Che un Barolo degli anni 2000 possa durare cinquant’anni io non mi azzardo a dirlo, dureranno solo quelli di pochissimi produttori». Perché prima c’erano tanti produttori nel Barolo i cui vini sono invecchiati benissimo, mentre oggi non è più così? «Circa alla metà degli anni Ottanta il Barolo e il Barbaresco si vendevano poco, i giovani che iniziavano a fare vino avevano fretta di diventare qualcuno nel mercato e decisero di adottare i metodi francesi per arrivare prima, così cominciarono a fare vinificazioni cortissime, magari con uve bellissime che venivano rovinate in cantina».

Conosci un grande vino da invecchiamento fatto in barriques o solo in botte grande?

«No, a oggi non conosco un vino italiano fatto in barriques che possa durare nel tempo, la mia diretta esperienza personale mi dice che per la longevità dei vini si deve usare solo la botte grande. E nei grandi vini da invecchiamento può succedere che certe annate, quando vengono messe sul mercato, siano buone subito, ma che dopo sei mesi si richiudano e poi passino anche dieci anni prima che si riaprano».

L’esperienza di Rino è ormai decennale e, chiedendogli di fare una panoramica dei vini che ha avuto il piacere e l’onore di assaggiare, si nota con quanta passione ne parli, partendo dagli anni Trenta: «La bottiglia più vecchia ancora grande che ho bevuto era un Barolo Borgogno del 1931. Ho assaggiato anche qualcosa del 1924 e del 1928, però non mi hanno dato molta soddisfazione, forse a causa della cattiva conservazione. Degli anni Trenta, le annate migliori sono state sicuramente il 1931, il 1934, il 1937, tutte bottiglie di Giacomo Borgogno e un Conterno Monfortino del 1937. Per gli anni Quaranta le aziende di riferimento sono sempre Borgogno e Giacomo Conterno, mi ricordo il 1941 e il 1947 Borgogno, che fu una grandissima annata. Ho anche un bellissimo ricordo del Barolo 1945 di Giacomo Conterno, ne ho bevute diverse bottiglie, proprio grande. Del decennio successivo, le annate migliori sono state 1952, 1955 e 1958 e, oltre alle aziende Borgogno e Giacomo Conterno, cominciò a farsi avanti anche Giuseppe Mascarello. Della fine degli anni Cinquanta si comincia anche a bere qualche buon Barbaresco di Gaja, veramente grande l’Infernot 1955 e 1958. Negli anni Sessanta subentrarono altri produttori come Giacosa, Oddero, Marcarini e Pira. Le grandi annate sono state 1961, grandissimo, 1964, 1967, che all’epoca fu un’annata maltrattata, che poi si è rivelata eccezionale, e il 1968. Anche del Barbaresco di Gaja il 1961, il 1964 e il 1967 sono belle bottiglie. Degli anni Settanta ricordo non solo la prima annata del decennio, ma anche 1971, grandissima, e il 1974, gran bella annata, anche se non per tanti produttori, ma comunque rivalutata a causa della scarsa qualità delle annate precedenti e successive. Poi, sempre di questo decennio, grandi sono state anche il 1978 e del 1979 alcuni produttori hanno fatto davvero grandi bottiglie come Giacomo Conterno, Bartolo Mascarello, Enrico Pira e Bruno Giacosa, di cui ho avuto la fortuna di bere tante bottiglie, era veramente bravo sia per il Barolo che per il Barbaresco: dobbiamo dire che il Barbaresco è ancora oggi Bruno Giacosa. Per finire gli anni Ottanta: ottime annate sono state il 1982 e il 1985, il 1986 solo per pochi produttori, anche nel 1987 diversi produttori fecero un buon prodotto, poi un grande 1988 e uno splendido 1989. Il gruppo delle aziende, più o meno, è sempre lo stesso. Negli anni Ottanta ho bevuto anche delle buone bottiglie di produttori come Domenico Clerico, Enrico Scavino, il Barbaresco di Bruno Rocca, ho anche un bel ricordo del Barolo 1982 di Luciano Sandrone: purtroppo questi produttori verso la fine degli anni Ottanta si sono persi a causa del cambiamento del modo di lavorare, hanno iniziato a fare vini internazionali a portata di molti, ampliando la loro fascia di acquirenti, ma, a mio parere, perdendo molto in qualità e anche me come cliente».

Quando stappi queste vecchie bottiglie che sensazioni provi?

«Ci trovo tanta dolcezza, al naso profumi che possono variare da una zona di Barolo all’altra o da una zona di Barbaresco all’altra, alcuni floreali, altri molto di frutta macerata, quasi sciroppo, ma ciò che mi colpisce di più è la dolcezza e la piacevolezza che c’è nel berli. Un vino è grande quando continueresti a berlo perché assaggiare si può assaggiare tutto, ma c’è poco che si può bere e continuare a bere senza stufarsi. Di vino vecchio io ne bevo tanto e sto bene, mentre il vino giovane, magari pure buono, ha un grande limite di beva, stanca».

Al momento in cui gli chiedo quali sono le tre bottiglie della sua vita, sembra quasi in difficoltà, come se non sapesse quale scegliere: «Questa è una domanda difficile. Sicuramente come Brunello il 1979 di Gianfranco Soldera che per me è indimenticabile. Poi in Piemonte il 1964 Santo Stefano di Neive Riserva Bruno Giacorsa. Del Barolo dirne una è difficile, di sicuro il 1931 Giacomo Borgogno, il 1958 Monfortino e il 1964 di Giuseppe Mascarello, di cui ho uno stupendo ricordo».

Foto: B. Bruchi